Amnesia: Rebirth, sviluppato da Frictional Games, è il seguito dell’altrettanto inquietante Amnesia: The Dark Descent del 2010, anche in questo caso si tratta di un survival horror in cui seguiremo le vicende dell’archeologa Tasi Trianond che dopo un disastroso incidente aereo che l’ha lasciate isolata nel torrido deserto dell’Algeria scoprirà che il resto della sua squadra è morta in circostanze misteriose e che ha dimenticato buona parte degli eventi successi in quel periodo e mano mano che recupererà i suo ricordi scoprirà che sono orribili quasi quanto le macabre creature che ora la perseguitano dall’ombra.
Il viaggio di Tasi è una delle esperienze più intense che il genere survival horror può offrire, purtroppo però, il design del puzzle di Amnesia: Rebirth è altrettanto terrificante.
In Amnesia: Rebirth, proprio come nel suo predecessore Amnesia: The Dark Descent, la luce sarà il nostro più grande alleato.
Il nostro scopo nel gioco sarà quello di aiutare Tasi a scappare dalla situazione da incubo in cui si è venuta a trovare attraversando grotte desertiche, antiche tombe funerarie e misteriosi siti archeologici. Per farlo dovremo cercare di stare sempre il più possibile vicino a una fonte fonte di luce perché più ci muoveremo nell’oscurità, più i livelli di paura di Tasi aumenteranno e quando cominceranno ad accumularsi inizieremo a sentire sussurri nell’oscurità. Quasi tutti gli ambienti sono scarsamente illuminati, quindi la nostra minuscola lanterna e quei pochi fiammiferi che raccoglieremo dall’ambiente sono un bene estremamente di lusso. Quando la paura di Tasi sfuggirà al nostro al controllo, inizieremo a vedere lampi di immagini grottesche, altri giochi si sarebbero probabilmente limitati a dei banali jumpscare, ma Amnesia: Rebirth produce continuamente una sequenza mozzafiato dopo l’altra. Non aiuta neanche che Tasi non abbia modo di reagire; quando vedremo un nemico, le nostre due scelte saranno correre o nascondersi. Questa impotenza è una parte fondamentale dell’esperienza orrorifica del gioco. Sia l’ambient che il sound design sono a livelli tali che, per quanto sapessimo benissimo che si tratti solo di un gioco, quanto la luce rimbalza attorno a bizzarre formazioni rocciose in modi inquietanti e strane creature svolazzano all’interno delle pareti, era comunque difficile non correre verso la luce in cerca di salvezza, almeno all’inizio…

Se lodare l’Amnesia: Rebirth come esperienza horror è facile, come esperienza di gioco, tuttavia, lascia piuttosto a desiderare.
Uno dei problemi maggiori di Amnesia: Rebirth sono i suoi enigmi, che spezzano il ritmo di gioco e fanno crollare la tensione, e non reggono nemmeno come esperienze di gameplay indipendenti. Il gioco è spesso poco chiaro sugli obiettivi o sui passi che devono essere fatti per progredire. Un esempio cercando di fare meno spoiler possibili: un puzzle richiede di attaccare le ruote a un cannone e poi spingerlo giù per una rampa in modo che cadendo sfondi il pavimento marcio. Questo non è mai stato comunicato ne direttamente ne indirettamente durante il gioco. Una volta rimasti bloccati abbiamo cominciato a girare per l’ambiente, praticamente nell’oscurità più totale, fino a quando, convinti di aver sbagliato strada abbiano deciso di allontanarci per esplorare un piano diverso della rovina in cui eravamo e, sulla via dell’uscita, non ci siamo imbattuti in una ruota posizionata in un punto in cui eravamo di certo già passati più volte, ma che l’assenza di luce ci impediva di vedere. E questo non è un caso isolato, ma il core loop del gioco stesso, abbiamo passato la maggior parte del nostro tempo a girare in ambienti labirintici, non mettendo alla prova la nostra intelligenza contro gli ostacoli ambientali, ma alla disperata ricerca di qualsiasi cosa ci permettesse di capire cosa il gioco volesse che noi facessimo, facendo diventerà l’amosfera orrorifica più una fonte di fastidio che di ansia. Amnesia: Rebirth presenta diverse creature ultraterrene che perseguitano Tasi attraverso una serie di umide caverne, e queste creature scorrazzano attraverso le ombre in modi sempre più inquietanti, ma più ci addentravamo nelle rovine, più ci rendevamo conto di quanto fossero scriptati gli incontri: i nemici spesso si allontanavano dalla nostra posizione all’ultimo momento senza che noi facessimo nulla, e altrettanto spesso basta arretrare di qualche passo perché si dimenticassero completamente della nostra esistenza e tornassero a fare qualunque cosa avessero di più interessante da fare nelle loro comode ombre ambientali. Anche quando si viene scoperti, le ripercussioni sono praticamente nulle: Tasi lotta con le creature e poi parte un filmato di lei che torna di corsa in uno spazio sicuro, che di solito è solo poche stanze indietro. Non ci sono schermate di game over e Tasi apparentemente non può morire. È carino dal punto di vista della comodità, ma alla lunga rovina l’atmosfera orrorifica trasformando la semplicemente in un pixel-hunting in giro per la mappa nella speranza di non incontrare mostri che facciamo perdere tempo e basta.
